sabato 6 agosto 2011

1993 Stefania de Mitri


Carte scoperte

















Boresta è magro, esile. Di fisico asciutto e nervoso abitato di contrasto da un’indole quieta, paciosa, controllata. La sua interiorità è però in fibrillazione continua, un pulsare a catena di nuove ricerche espressive. Poco più che trentenne, Boresta ha già attraversato varie fasi di ricerca, espressione e traccia del suo permanente desiderio di sperimentarsi. Dal periodo dei tovaglioli, frutto di un soggiorno trascorso a Londra per motivi di studio, durante il quale dipinge i suoi soggetti con mezzi di fortuna, direttamente sui tovaglioli dei ristoranti dove lavora come cameriere per mantenersi, graffiando segni colorati attorno ed all’interno di volti maschili, che richiamano spesso i suoi tratti somatici. Autobiografia casuale o voluta? A questa serie un po’ casuale, che riprenderà più volte in seguito ma con spirito diverso, con più tecnica e meno impatto emotivo, segue naturalmente quella degli “Scratch Colours”, letteralmente “colori graffiati”. Ancora unghiate spesse di colori vivacissimi di sapore postespressionista.
















Il colore genera l’immagine e non viceversa. Sono figurativi su sfondi astratti che riprendono “paesaggi, animali, visi, donne, nei quali la gestualità e l’immediatezza nella realizzazione sono di fondamentale importanza in quando solo la stesura veloce con la spatola della vasta gamma dei colori disponibile rende l’effetto desiderato e cioè”, come da dichiarazione dello stesso Boresta, “un miscuglio colorato nel quale si può ancora distinguere agevolmente l’oggetto dell’opera non del tutto disfatto od annientato dalla componente astratta”. Il segno che definisce queste immagini è scuro e netto. Nuovamente la contraddizione di Boresta, teso nell’estrapolazione dal profondo di una realtà interiore sanguigna, talvolta violenta, come di un’eruzione di sentimenti a lungo sobbolliti sotto la linea piatta di un lago tranquillo solo in superficie, sotto la sua pelle di artista. Poco dopo, affascinato dalle tonalità bruciate dalle terre a dai corpi angolosi e levigati delle genti africane, realizza il ciclo dei “Nuba”, ispirato ad una tribù nera dell’Africa centrale. Questi lavori puntualizzano il lato selvaggio, primitivo presente in ciascuno di noi, quel lato troppo spesso soffocato dal vivere civile. In essi si riconosce la gioia del pittore di avere i colori già pronti sul suo tavolo da lavoro, la scelta delle terre a portata di mano, col piacere di riempire le linee sciolte dei corpi, non condizionate da null’altro che dalla loro libertà.
















È il ciclo dell’origine, dell’espansione, della liberazione. Dopo aver a lungo trattenuto all’interno le espressioni, dopo averle tirate fuori a fatica con graffi e rabbia sui tovaglioli e sugli scratch colours, ora finalmente possono fluire libere all’esterno, il primitivo tornare in superficie, riaffiorando nella dimensione odierna del pittore ma senza contrastarla, semmai integrandola di una luce nuova. Nei Nuba c’è più silenzio e meno tensione che non nei lavori precedenti. Si potrebbe dire che si gioca di più a carte scoperte. L’artista realizza in seguito la serie delle “Sinfonie”, grandi tele che richiamano alla mente l’espressionismo tedesco. Boresta stesso ne ha descritto lo stato d’animo di creazione: “dipingevo febbrilmente per la gioia di vedere le opere terminate, respirare la sfida con l’irrazionale, assaporare gli apparenti, casuali accostamenti di colori e di forme alla ricerca di un significato raggiungibile solo comprendendo l’importanza che un’opera riveste in quanto terminata, compiuta… un’opera ormai definita, quindi con una propria musica…” Nelle sinfonie i colori si fondono e si confondono, le ombre non sono più scure ma piene di colori a rappresentare simbolicamente la nascita dell’uomo nuovo, della coscienza ritrovata del sociale. Le sinfonie si distinguono – a seconda degli stati d’animo ma anche delle tecniche di esecuzione adottate dal pittore – in modulari o verticali, o anche verticali in ombra. Queste ultime realizzate in occasione della performance di action painting di Roma del 19 aprile 1991.
“Inconsciamente ho forse scelto le ombre perché esprimono e rappresentano la parte di noi più nascosta che non ci abbandona mai” Dice Boresta “e che ci portiamo sempre dentro nel bene e nel male…un’ombra come coscienza…Nelle ombre le differenze fra uomini diminuiscono” prosegue “ombre non più nere, ma con tutti i colori possibili, come se si fosse alla ricerca di nuove tonalità al di fuori dello spettro ottico…”





























Non a caso Boresta, nel pieghevole della sua prima personale realizzata nel 1989 nell’aula consiliare di Cerveteri, si è definito e continua tuttora a definirsi “un’espressionista simbolista… che fa una pittura che ferma la vita nell’attimo in cui l’artista la esegue…in una proiezione estetica dei momenti dell’anima…” Un’altra serie alquanto particolare è quella dei cartoni. Grandi pezzi da imballo per scatoloni, sui quali l’artista incolla profili variopinti di uomini e di donne che egli prende direttamente dal contesto che lo circonda. Sulla materia semplice Boresta appoggia se stesso ed i contorni della sua giovane compagna, modella frequente di tanti suoi quadri. In questi lavori colpisce il contrasto fra la base grezza e le silhouettes finemente ritagliate poste sopra di essa come su di un contesto sbagliato. Qui le persone non si confondono più con il contorno, ma si staccano nettamente dallo sfondo per esprimere la propria consapevolezza individuale in continuo movimento. Successivamente Boresta realizza la serie degli “Art Collage”, seguito di una ricerca del 1991 su collages a puzzle da opere famose dei grandi maestri del passato. Soffermandosi sui lati ombrosi e romantici della pittura rinascimentale congeniale in questo periodo, ne reinterpreta lo spirito nelle sue opere dapprima casuali, poi a tema definito (Omaggio a Francis Bacon, all’infanzia, alla vecchiaia, alla donna, ecc.).





























La tecnica adottata è originale ed armonica. Boresta inizia con una base composta da fogli di quotidiani, spesso terze pagine dedicate ai pittori che ama, talora spaziando altrove come per quella ad esempio dedicata all’attore Roberto Benigni con il quale condivide, sotto le sue acque chete, lo stile sagace di piccolo diavolo. Il foglio è incollato su un cartone grezzo, sul quale l’artista sovrappone inserti di quadri noti, particolari, ingradimenti, ripetuti, tagliati, riportati in positivo ed in negativo. Di volta in volta accompagnati da inserti irregolari di colore, dal taglio diritto oppure modulare, arrotondato, morbido, uno quasi a forma di fiore. A modo suo realizza collages nei collages. In uno di questi, particolare che a prima vista potrebbe sembrare minore rispetto alle dimensioni dell’insieme ma che sul finale minore non è, all’interno della quale colloca la copia miniaturizzata di un quadro altrettanto antico. In altri, come in quello dedicato all’infanzia, aggiunge ritagli di foto dai suoi quadri oppure interviene figurativamente sul momento come in quello nel quale dipinge direttamente uno dei suoi uomini composti di colore, poggiandolo alla base del cartone.













Successivamente utilizza come sfondi rettangolari di stoffe diverse, tenendo sempre però ferma l’attenzione sull’equilibrio delle tonalità e delle forme, delle linee e dei leggeri rilievi, e bilanciando il tutto di contenuti in movimento che portano l’osservatore all’esercizio del rimbalzo, per conseguenza dei richiami e delle evidenti e/o sottili ripetizioni che l’artista propone da un punto all’altro dell’opera. Abbandonata del tutto la carta di giornale, lavora solo su riproduzioni di quadri d’epoca, talvolta monocolori, seppia o verdini ad esempio, come base di nuove creazioni che ripropongono paesaggi o piccole città, oppure vedute campestri dei tempi andati. Incapace di resistere a lungo passivo, vi inserisce sopra riproduzioni di opere molto colorate o interviene direttamente lui con pennelli, rispecchiando ancora la sua indole contrastata, in superficie calma come quei quadri lievi e monocolori che pone sotto, ma che subito dopo copre e sovrasta con gli inserti accesi delle sue tinte o degli altri quadri che sceglie per dominarli.
























Altri lavori sono tuttora in corso per questo artista sempre in azione, appassionato nell’esporre la vita delle sue opere, nate da un impulso qualsiasi, covato per un po’ al suo interno per poi uscire fuori, trattenuto a fatica sui suoi materiali sovente poveri (tovaglioli, carta da spolvero, cartoni), quasi spillato sopra dalla forza della sua determinazione a creare, ad insistere nella ricerca, ad andare avanti nonostante tutto mantenendosi artista, non contaminato dalla commerciabilità del prodotto.



Stefania de Mitri


Un estratto è stato pubblicato sul catalogo “Il castello siamo noi”, Fiera internazionale d'arte contemporanea Calcata 1993.

In foto: Io, Francis Bacon e Roberto Benigni e alcune opere del 1988 della serie dei “Tovaglioli” alcuni dei quali autoritratti.

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